Alba, Anna, Clelia, Daniela, Franca, Gabriella, Manuela, Mirella, Roberta, Silvana, Silvia, Ursula, più un’altra Daniela che aggiungo fuori alfabeto, perché nell’omonimia non perda il rilievo che deve avere.
Sono tredici donne (forse anche qualcuna di più perché ho capito che oggi non tutte sono presenti) che, da quattro anni, il lunedì pomeriggio, si incontrano alla Casa della Gioventù per lavorare a maglia. Non sono così fuori dal mondo da provare a chiedere, appena arrivato, troppe cose, tantomeno l’età, ma sono tutte intimamente giovani, perché hanno progettato e realizzato qualcosa che le tiene insieme e che va lontano. Ai miei occhi, chi progetta qualcosa e lavora alla sua realizzazione è, e rimane, giovane.
Alcune le conosco di persona, altre solo di vista: due o tre mi sembra proprio di non averle mai incontrate: le mascherine sul volto complicano le cose, ma del loro nome sono certo. Per essere sicuro di non sbagliare, l’ho chiesto a ognuna e me lo sono scritto: sorridendo, prima di dirmi come si chiamava, una signora ha voluto sapere che uso avrei fatto del suo nome, ma sono stato convincente e ho saputo quello che volevo sapere. Se fosse mancato anche un solo nome, sarebbe stato come togliere una pennellata di colore a un dipinto, una nota a una melodia. Sembra nulla, ma l’insieme ne soffre, è meno bello. Anche in questo caso, è il gruppo quello che ha più valore: l’anonimato è un merito per chi si impegna a fare il bene, ma qui non avrebbe aggiunto niente a quello che c’è già di bello e di buono.
Non tutte le donne che “sferruzzano” abitano nella parrocchia; qualcuna tiene a precisarlo, ma non vedo differenze fra loro: mi colpiscono di più le voci che ancora conservano una traccia della loro provenienza. Ursula è nata in Germania, è quella che ha fatto più strada per arrivare fin qui, dove è giunta nel 1972; Daniela è friulana, ma -non ho capito perché- si considera mantovana; Clelia è nata in Umbria e ricorda che si è sposata lo stesso giorno in cui a San Piero in Palco fu consacrata la nuova Chiesa, nel giugno del 1959. Ho saputo che Manuela dipinge, ma non ho avuto il coraggio di chiederle che tipo di pittura pratichi: era la prima volta che mi vedeva e ho avuto l’impressione che avesse dei dubbi su cosa volevo fare di tutte le parole che stavamo scambiando senza seguire un filo logico.
Queste signore, il pomeriggio del lunedì, sedute in cerchio, circondate da matasse e gomitoli di lana colorata, lavorando con i ferri da calza, producono copertine che vanno in Africa, in Burkina Faso, il paese del caldo e della polvere, dove sembrerebbe impossibile che ne abbiano bisogno e invece così non è. Collaborano con il “Campo di Lavoro per il Santo Natale”, l’associazione fondata da don Carlo Donati molti anni fa a Rincine, sui monti sopra a Londa. Ne hanno fatte tante di copertine, un quantitativo incredibile: senza avere la presunzione dell’esattezza dei ragionieri, abbiamo calcolato che ne abbiano fatte poco meno di 1000. Dato che ogni copertina pesa circa 250 grammi, viene fuori che hanno lavorato quasi 250 chili di lana: una montagna!
Siccome i numeri danno meglio delle parole il senso delle dimensioni del progetto missionario a cui lavorano le signore di cui parlo, avendo appurato che una pecora produce in un anno circa due chili e mezzo di lana, viene fuori che hanno lavorato la lana di un gregge di cento pecore!
Già, la lana: “Chiedi e ti sarà dato.” dice il Vangelo. Si chiede, ma anche si cerca e la lana esce fuori dai posti più impensati: quando sembra che i lavori debbano fermarsi perché la lana è finita, la Provvidenza provvede! I colori non sono un problema: in Burkina Faso i colori sono tutti forti, contrastanti. La terra è rossa; i baobab, che fanno la poca ombra che c’è, hanno rade foglie verdi; i vestiti dei Burkinabé, quelli delle donne in particolare, sono molto colorati e le copertine che nascono dalle mani delle signore che si ritrovano il lunedì pomeriggio, di sicuro non hanno avuto problemi ad intonarsi all’ambiente.
Le signore che lavorano a maglia per realizzare il loro progetto missionario mi hanno detto che lavorano anche a qualcos’altro che ancora, per precauzione, non ritengono di dover rendere noto; ma da come me l’hanno detto, da come brillavano i loro occhi, deve essere qualcosa di speciale, in cui le loro mani e la lana faranno qualcosa che non potremo fare a meno di vedere.
L’atmosfera che si respira il lunedì pomeriggio è particolare: sul tavolo, fra l’arcolaio e i gomitoli, c’è anche un piccolo vassoio di dolcetti fatti da Franca, a cui viene chiesta la ricetta e si discute sulle varianti che ognuna delle signore conosce. Ho promesso che porterò loro la ricetta del “cacciucco di ceci”, l’unico piatto che so preparare in modo decente, ma è il nome del piatto che ha fatto colpo, non lo chef che lo propone.
Tornerò anche perché sono tentato di realizzare un sogno che mi porto dietro da quando ero un ragazzo e vedevo la nonna farmi i calzini di lana utilizzando più di due ferri: voglio imparare a fare la calza.
Mi insegneranno? Imparerò? Prometto che informerò chi fosse interessato.