PER FARE UN ALBERO … in prosa

Versione in prosa di un lungo Avvento

Le signore che lavorano la lana mi hanno guardato con circospezione, fra il preoccupato e lo scettico, quando ho letto quello che avevo scritto sul loro lungo Avvento.

Mi hanno detto con dolce fermezza, che per raccontare la storia del loro progetto natalizio in modo comprensibile, dovevo fare la versione in prosa di quello che avevo già scritto di loro.

Mi hanno raccontato, pregandomi di riferirlo con puntualità e senza farmi prendere la mano dall’estro creativo che ogni tanto mi allontana dalla realtà, quello che segue.

Quei fiori di lana che ho visto uscire dalle loro mani, mi hanno spiegato, altro non sono che le “piastrelle” che, cucite insieme, rivestiranno un armatura di legno a forma piramidale, alta tre metri, con una base ottagonale che ha un perimetro di due.

L’armatura, le signore lo dicono con la soddisfazione di chi ha raggiunto un obiettivo importante e non scontato, è stata costruita grazie alla collaborazione del “Gruppo famiglie”, una delle entità che da più tempo costituiscono la galassia di San Piero in Palco.

Quello che ricordo della geometria dei solidi, mi fa capire che per rivestire quella superficie ci vogliono un’infinità di piastrelle di lana. Per soddisfare la mia curiosità mi viene detto che, piastrella più, piastrella meno, ce ne vorranno settecento e hanno una forma quadrata.

Per confezionarne una, sono necessari quindici grammi di lana: quindi ne sono stati lavorati più di dieci chili, grosso modo quella prodotta tosando quattro o cinque pecore che, attraverso le vie più disparate, è arrivata fino a loro per alimentare l’attività di queste benemerite signore.

Va avanti da diversi mesi il loro Avvento: un tempo che è servito a far maturare l’idea, farla diventare un progetto definito e poi un dono per la nostra parrocchia.

Però non sembri un’eresia delle mie, se ho raccontato che alla Casa della Gioventù, il lunedì pomeriggio, una quindicina di signore, hanno meditato sulla venuta del Divin Bambino, lavorando la lana durante un Avvento lungo mesi per fare un albero di fiori per il Natale.

Comunque ora mi è più chiaro quello che mi aveva detto Daniela: “Per fare un albero ci vuole un fiore…Per fare tutto ci vuole un fiore!”

PER FARE UN ALBERO

Storia di un lungo Avvento

Per fare un fiore ci vuole un albero…Per fare tutto ci vuole un fiore” , mi ha detto Daniela, citando i versi di Gianni Rodari cantati da Sergio Endrigo. E’ una delle signore che si ritrovano il pomeriggio del lunedì alla Casa della Gioventù per lavorare a maglia e intendeva alludere al loro progetto natalizio.

Raccontata da uno a cui piace inventare storie, questa potrebbe essere quella di un “Avvento” molto più lungo delle canoniche quattro settimane che precedono il 25 dicembre, destinate al raccoglimento e alla meditazione sulla venuta del Divin Bambino.

Una storia che ha più personaggi, ma che vede protagoniste assolute le signore del lunedì, che lavorano da mesi a qualcosa che vedrà la luce a Natale.

Mi piacerebbe raccontare, per continuare a far riferimento al loro personale Avvento, che quelle donne stanno seguendo una loro cometa che le guida dalla primavera di quest’anno e ora hanno la consapevolezza che il Natale, la loro meta, ormai è vicino.

Non sono i tre Re Magi, sono molte di più le signore di cui vorrei raccontare la storia: dalle loro mani operose ho visto sbocciare fiori di lana di mille colori e li ho anche toccati come, invece, non ho mai potuto fare con l’oro, l’incenso e la mirra che portavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

Le signore che lavorano la lana e hanno mani da cui escono fiori, mi sono sembrate degli alberi da frutto. L’avete mai visto com’è bello e pieno di poesia un frutteto fiorito?

Se vi affaccerete alla Casa della Gioventù il lunedì pomeriggio, aiutando gli occhi con un po’ di fantasia, vedrete quello che ho visto io: un frutteto in fiore.

Lo dice anche il verso della canzone citata da Daniela che “Per fare tutto ci vuole un fiore!”.

Lo so bene che è poesia e non scienza; ma senza i fiori, la poesia e il pensiero fisso al Natale, come avrebbero fatto a realizzare il loro sogno le signore protagoniste della storia che mi piacerebbe raccontare?

Tredici donne e un uomo, un lunedì pomeriggio alla Casa della Gioventù

Alba, Anna, Clelia, Daniela, Franca, Gabriella, Manuela, Mirella, Roberta, Silvana, Silvia, Ursula, più un’altra Daniela che aggiungo fuori alfabeto, perché nell’omonimia non perda il rilievo che deve avere.

Sono tredici donne (forse anche qualcuna di più perché ho capito che oggi non tutte sono presenti) che, da quattro anni, il lunedì pomeriggio, si incontrano alla Casa della Gioventù per lavorare a maglia. Non sono così fuori dal mondo da provare a chiedere, appena arrivato, troppe cose, tantomeno l’età, ma sono tutte intimamente giovani, perché hanno progettato e realizzato qualcosa che le tiene insieme e che va lontano. Ai miei occhi, chi progetta qualcosa e lavora alla sua realizzazione è, e rimane, giovane.

Alcune le conosco di persona, altre solo di vista: due o tre mi sembra proprio di non averle mai incontrate: le mascherine sul volto complicano le cose, ma del loro nome sono certo. Per essere sicuro di non sbagliare, l’ho chiesto a ognuna e me lo sono scritto: sorridendo, prima di dirmi come si chiamava, una signora ha voluto sapere che uso avrei fatto del suo nome, ma sono stato convincente e ho saputo quello che volevo sapere. Se fosse mancato anche un solo nome, sarebbe stato come togliere una pennellata di colore a un dipinto, una nota a una melodia. Sembra nulla, ma l’insieme ne soffre, è meno bello. Anche in questo caso, è il gruppo quello che ha più valore: l’anonimato è un merito per chi si impegna a fare il bene, ma qui non avrebbe aggiunto niente a quello che c’è già di bello e di buono.

Non tutte le donne che “sferruzzano” abitano nella parrocchia; qualcuna tiene a precisarlo, ma non vedo differenze fra loro: mi colpiscono di più le voci che ancora conservano una traccia della loro provenienza. Ursula è nata in Germania, è quella che ha fatto più strada per arrivare fin qui, dove è giunta nel 1972; Daniela è friulana, ma -non ho capito perché- si considera mantovana; Clelia è nata in Umbria e ricorda che si è sposata lo stesso giorno in cui a San Piero in Palco fu consacrata la nuova Chiesa, nel giugno del 1959. Ho saputo che Manuela dipinge, ma non ho avuto il coraggio di chiederle che tipo di pittura pratichi: era la prima volta che mi vedeva e ho avuto l’impressione che avesse dei dubbi su cosa volevo fare di tutte le parole che stavamo scambiando senza seguire un filo logico.

Lavoro a maglia alla CDG
Lavoro a maglia alla CDG

Queste signore, il pomeriggio del lunedì, sedute in cerchio, circondate da matasse e gomitoli di lana colorata, lavorando con i ferri da calza, producono copertine che vanno in Africa, in Burkina Faso, il paese del caldo e della polvere, dove sembrerebbe impossibile che ne abbiano bisogno e invece così non è. Collaborano con il “Campo di Lavoro per il Santo Natale”, l’associazione fondata da don Carlo Donati molti anni fa a Rincine, sui monti sopra a Londa. Ne hanno fatte tante di copertine, un quantitativo incredibile: senza avere la presunzione dell’esattezza dei ragionieri, abbiamo calcolato che ne abbiano fatte poco meno di 1000. Dato che ogni copertina pesa circa 250 grammi, viene fuori che hanno lavorato quasi 250 chili di lana: una montagna!

Siccome i numeri danno meglio delle parole il senso delle dimensioni del progetto missionario a cui lavorano le signore di cui parlo, avendo appurato che una pecora produce in un anno circa due chili e mezzo di lana, viene fuori che hanno lavorato la lana di un gregge di cento pecore!

Già, la lana: “Chiedi e ti sarà dato.” dice il Vangelo. Si chiede, ma anche si cerca e la lana esce fuori dai posti più impensati: quando sembra che i lavori debbano fermarsi perché la lana è finita, la Provvidenza provvede! I colori non sono un problema: in Burkina Faso i colori sono tutti forti, contrastanti. La terra è rossa; i baobab, che fanno la poca ombra che c’è, hanno rade foglie verdi; i vestiti dei Burkinabé, quelli delle donne in particolare, sono molto colorati e le copertine che nascono dalle mani delle signore che si ritrovano il lunedì pomeriggio, di sicuro non hanno avuto problemi ad intonarsi all’ambiente.

Lavoro a maglia alla CDG
Lavoro a maglia alla CDG

Le signore che lavorano a maglia per realizzare il loro progetto missionario mi hanno detto che lavorano anche a qualcos’altro che ancora, per precauzione, non ritengono di dover rendere noto; ma da come me l’hanno detto, da come brillavano i loro occhi, deve essere qualcosa di speciale, in cui le loro mani e la lana faranno qualcosa che non potremo fare a meno di vedere.

L’atmosfera che si respira il lunedì pomeriggio è particolare: sul tavolo, fra l’arcolaio e i gomitoli, c’è anche un piccolo vassoio di dolcetti fatti da Franca, a cui viene chiesta la ricetta e si discute sulle varianti che ognuna delle signore conosce. Ho promesso che porterò loro la ricetta del “cacciucco di ceci”, l’unico piatto che so preparare in modo decente, ma è il nome del piatto che ha fatto colpo, non lo chef che lo propone.

Tornerò anche perché sono tentato di realizzare un sogno che mi porto dietro da quando ero un ragazzo e vedevo la nonna farmi i calzini di lana utilizzando più di due ferri: voglio imparare a fare la calza.

Mi insegneranno? Imparerò? Prometto che informerò chi fosse interessato.

Sempre a proposito della SILVANA NENCINI

LORENZO SALSI

La Silvana era una donna piccola di statura, ma gigantesca come carattere: simpatica, quasi comica, specialmente quando prendeva in giro figlio e marito. Non credo che mai nessuna mosca le si fosse posata sul naso, un nasetto piccolo e tondo, che rispecchiava tutta la sua figura.

Energica, di quella energia argentea e non nervosa, prontissima alla battuta di spirito, come pronta era a farsi canzonare.

Fu per anni barista nel nostro circolo, la Casa della Gioventù di San Piero in Palco e le furbizie degli avventori si scontravano con la sua, che non aveva rivali, lasciandola sempre vincente.

Amò senza tregua il suo Antonio fino a che visse, il suo Maurizio, poi Neri suo nipote, e in ultime le bisnipoti, ma amò anche noi amici di Maurizio, per questo oggi che ci sarà il funerale di Silvana, sono molto triste.

Lo so la vita funziona, quando funziona, così: le persone anziane o vecchie ci lasciano, ma questa regola non apprezza gli affetti e l’affetto che ho provato in una parte di vita mia trascorsa nelle vicinanze “della Silvana” è quello che oggi me la fa rimpiangere.

Ciao Silvana  

Lorenzo

STEFANO PEMONI:

Spero che tu mi scuserai, Maurizio, se mi sento di scrivere ancora qualcosa legato alla memoria di un ragazzo della Gavinana nuova, che cresceva negli anni in cui la tua mamma mi fece mangiare le seppie in inzimino per la prima volta in vita mia, cucinate durante il suo intervallo di lavoro.

Già, perché lei lavorava, a differenza della maggior parte delle nostre mamme che stavano a casa.

E quando, dopo che si era tolta il polipo, ti chiamò dalla terrazza di cucina con la voce “nuova”, e noi che eravamo dal Martelli, ci mettemmo a ridere, sentendola strillare in quel modo! 

In lei, inconsapevolmente, vidi per la prima volta una donna moderna, che coniugava i ruoli di mamma, moglie, e lavoro senza mai discriminare un ruolo a favore dell’altro.

È questo il mio omaggio alla sua vita in questi attimi di memoria condivisi con te, caro vecchio ragazzo che mi facevi sognare ogni volta che con la tua prima Martin intonavi “Imagine”.

Alla vita che continua, avrebbe sicuramente detto la Silvana.

Stefano

LUCIA COLLINI

CI SEI SEMPRE STATA!

Se porto la mente indietro

Devo andare molto indietro

Perché praticamente

Ci sei sempre stata.

Nelle prime pagine dell’album dei ricordi

Sei a fare le nottate ad un ragazzo sfortunato,

non curante del fatto che il mattino dopo andavi a lavorare.

Sfoglio le pagine e ti ritrovo catechista:

Non so quantificare il numero di bambini,

per quanti anni lo sei stata

Vado ancora avanti:

ti vedo impegnata

nelle tante attività della CdG

senza orari e senza problemi,

anche se ce n’erano tanti.

Giro un’altra pagina:

Sei ad aiutare in canonica

perché un vecchio prete

era restato solo con una vecchia mamma.

E nelle pagine finali,

quando la vita ti ha fatto

tirare i remi in barca,

eri presente nella vita di tanti,

hai quali avevi voluto

e volevi un gran bene,

Telefonando soltanto per sapere: ”Come stai?”

Ci sei sempre stata!

Ci sarai sempre!

Lucia

A proposito della SILVANA NENCINI

Il giardino della memoria

Domenica, 23 gennaio 2022 è morta SILVANA GENNAI. Era nata a Rignano sull’Arno il 7 aprile 1929, aveva sposato Antonio Nencini e nella nostra parrocchia tutti la conoscevano come “la SILVANA NENCINI”.

Questi sono tempi in cui si nasce e si muore in incognito: solo le campane della Chiesa informano chi le sa ascoltare se è un giorno di gioia o di tristezza, ma quando muore una persona la cui umanità ha superato i confini della famiglia e ha illuminato, scaldato, rallegrato e aiutato chi si rivolgeva a lei, bisogna conservarne la memoria e l’esempio: l’elogio funebre ci consola della sua perdita e ci fa comprendere la fortuna che ci è stata data di averla avuta fra noi.

SILVANA NENCINI era una di queste persone e il vuoto che si è creato si riempie delle voci di chi l’ha conosciuta più da vicino: se si ascoltano bene raccontano la sua vita, ma anche quella della nostra parrocchia.

Per primo il ricordo più viscerale, di chi l’ha conosciuta più da vicino, quello del figlio Maurizio.

Dopo quello di coloro che vorranno mandare la loro personale testimonianza raccontando qualcosa “a proposito della Silvana Nencini”.

Il coltivatore di ricordi

§§§§

La Silvana la potrei descrivere con tre sole parole: una gran rompiscatole!!

Detto questo, se io sono quel che sono, come uomo intendo, lo devo esclusivamente a lei, perché fin da piccolo mi ha dapprima sorvegliato e poi insegnato le cose vere della vita, i comportamenti giusti da tenere, ma soprattutto l’onestà in tutte le sue declinazioni.

Non era una donna facile da gestire: come poteva esserlo una donna votata al comando e desiderosa di avere tutto sotto controllo? Certo è che ha sempre vissuto per gli altri e molto poco per sé stessa.

Ricordo perfettamente quando da casalinga – io ero piccolo – faceva volontariato presso la segreteria dell’ANFFAS (Ass.ne Naz.le Famiglie Fanciulli Subnormali), mi pare fosse in via Ricasoli: spesso mi portava con sé, facendomi “subire” la vista di quei ragazzi che ai miei occhi parevano davvero strani e mi mettevano paura.

Poi cominciò ad assistere Paolo Naldi, che abitava nelle case popolari di via Erbosa, dal quale anche Delio Donnini faceva volontariato. Prima con alcune ore giornaliere e poi notti su notti. Accadeva che spesso venisse avvertita oltre le 20.30: allora, senza battere ciglio, s’infilava qualsiasi cosa, pur di arrivare velocemente, per non lasciare Paolo da solo. Spesso il povero Antonio – il mio babbo – s’arrabbiava di brutto, perché anche lui era anziano. Le domandava chi lo avrebbe aiutato se si fosse sentito male. La risposta della Silvana era sempre la stessa: “A te un t’ammazza nemmeno i tedeschi!!!”

La costanza per gli impegni presi era per lei una cosa sacra, così come andare all’Istituto San Giuseppe, la casa delle suore francescane dell’Immacolata in via Datini, dove c’era l’asilo che io ho frequentato con suor Ludovica, per accompagnare quelle vecchiette – come le chiamava lei – alla Messa, oppure a fare una giratina spingendo le loro carrozzine.

Potrei dire di come ha assistito per oltre 40 giorni mia zia, la sorella di mio padre, che abitava a Siena, in una situazione difficile in quanto la poveretta soffriva come una bestia, costretta a letto da un femore rotto e da un tumore al pancreas.

Ecco, la Silvana faceva tutte queste cose con una naturalezza disarmante, senza mai lamentarsi, come se fosse tutto normale. Insomma, ha sempre messo gli altri avanti a tutto. Qualche volta anche prima della famiglia, ma certo a me non è mai mancato il suo sostegno, il suo amore e la sua capacità di ascoltarmi quando avevo qualche problema che mi affliggeva.

Oltre a questo, devo dire che era una “perfettina” in tutto quello che faceva: teneva sempre la doppia contabilità di tutto, dalla Ditta alle banche, dai conti familiari alle cose da fare. Tutto doveva essere sempre sotto controllo. A tal proposito mi torna alla mente quando nei primi anni ’80 convinsi il Babbo ad acquistare l’antesignano del moderno computer, quello che allora si chiamava “elaboratore elettronico”, in modo da poter gestire in automatico il magazzino e l’emissione delle fatture. Gli feci spendere quanto comprare una Porsche, ma ero sicuro che ci avrebbe facilitato molto il lavoro ed avrebbe sollevato la mamma dall’emettere tutte le fatture a mano.

Dopo questo importante investimento, una sera – mentre io e il babbo aspettavamo sul marciapiede che anche lei uscisse per poter chiudere – le urlai di fare veloce a vestirsi, perché avevo fretta di tornare a casa. A tale richiesta ebbi come risposta: “Aspetta 5 minuti che arrivo!”

Dopo che quei 5 minuti erano diventati 10, mi decisi a rientrare in magazzino per capire perché non arrivasse: con stupore, la vidi seduta alla scrivania con le fatture davanti e la calcolatrice in movimento. Per farla breve, era lì che ricontrollava se l’elaboratore elettronico avesse fatto bene i conti e rifaceva tutti i conteggi a mano, fattura per fattura. Tralascio quello che le dissi, ma credo che questo episodio renda bene l’idea di che donna fosse!

A tutto questo, aggiungo la Casa della Gioventù e l’insegnamento della dottrina, come la Silvana chiamava il catechismo: la parrocchia era la sua seconda casa, anzi, spesso la “prima”, come diceva i’ mi’ babbo. Era il suo mondo e per quel mondo avrebbe fatto qualsiasi cosa, come uscire improvvisamente di casa per portare le chiavi della Cdg a Don Averardo che non le trovava, oppure perché lo stesso si era dimenticato di avvertirla di una riunione e lei doveva aprire e rimanere al bar da sola, aspettando che la riunione finisse. Questo accadeva a tutte le ore e in tutte le stagioni: con il caldo, il freddo e la pioggia.

Che io ricordi non ha mai detto NO a nessuna cosa che le venisse richiesta. Ecco, questa era la Silvana, una donna piena di energia e voglia di fare, felice di aiutare e di sentirsi utile. Previdente come una formica, mai attratta dai salti nel buio.

Quando tornò dai Falciani, ormai costretta in carrozzina, mi consegnò due lettere che avrei dovuto aprire dopo la sua morte. Purtroppo ho dovuto aprirle e, al di là di quella dedicata a me, che solo a scriverlo mi viene da piangere, nell’altra vi era un elenco cronologico dove c’erano scritte tutte le cose che dovevo fare, dove erano situate le carte che mi sarebbero servite, ma soprattutto le sue ultime volontà e come fare per riunirla al babbo in un unico spazio eterno.

Era dispiaciuta del fatto che da viva, ed avendo un figlio, non poteva acquistarlo e che tale spesa, me la sarei dovuta accollare io…aggiungendo però, subito dopo, che tutto sommato, sarebbe stata poca cosa rispetto a quello che lei aveva speso per me…

Tenera, ironica e sfrontata allo stesso tempo. Sono strafelice che abbia potuto conoscere le sue bisnipoti, che non abbia mai sofferto e che fino all’ultimo abbia conservato la lucidità per riconoscermi, permettendomi di emozionarmi davanti al suo sorriso che, sebbene giorno dopo giorno sembrasse meno convinto, veniva sostituito dai suoi teneri sguardi.

Non nascondo che scrivere queste cose mi abbia parecchio emozionato, perché posso garantire che non avrei potuto desiderare madre migliore della Silvana Gennai sposata Nencini.

                                                                                                                           Maurizio